Narrare la Shoah: il difficile mestiere di raccontare la storia ai più piccoli

DisegnoVorrei cominciare raccontando un breve aneddoto. Durante il convegno dell’Associazione Italiana di Public History, ho partecipato, come uditrice, a un interessante panel dal titolo Il racconto del Novecento tra graphic novel e albi illustrati. Fra le presentazioni mi ha molto colpito un intervento di Paola Tarantelli, proprietaria di una libreria per ragazzi a Udine dal significativo nome La pecora nera

“È la sera del 26 gennaio, sto per chiudere la libreria, quando giunge di corsa una signora, qualificandosi come insegnante, e mi chiede un racconto per ragazzi sulla Shoah da leggere in classe il giorno dopo”.

Il giorno dopo è il Giorno della memoria e la prassi didattica indica di dedicare un momento di riflessione sul genocidio ebraico. Ma la prassi, quando diventa consuetudine ripetitiva, costringe spesso a lavorare in emergenza, con tempi ridotti e sempre più con strumenti che consentano una rapida risoluzione del problema: a libri, documentari, film, cartoni animati è delegato il compito di far conoscere un evento storico agli studenti. Dopo tutto la letteratura per ragazzi, che ha adottato il tema della Shoah, da qualche hanno sta espandendo il suo mercato. Nella crisi degli italiani che non leggono è invece in crescita il settore dedicato ai più piccoli, dai 6 ai 12 anni; oltre questa soglia l’adolescenza sembra soffocare la curiosità della lettura. Sembra che il racconto della Shoah stia attraversando una fase 2.0 della memoria. Negli scaffali dei settori dell’infanzia, fra le avventure di Peppa Pig e Masha e Orso, non è inusuale imbattersi in volumi che raccontano la deportazione e lo sterminio degli ebrei durante il nazifascismo. Sembra che, con un po’ di immaginazione e padroneggiando qualche tecnica narrativa, si possa raccontare ai più piccoli anche una tragedia umana come la Shoah.

Ho scritto “raccontare”, che è un atto differente rispetto all’interpretare e, ancor di più, rispetto al capire un fatto storico. L’insegnante, che entra di corsa in libreria la sera del 26 gennaio e si affida a una sconosciuta di cui non conosce competenze e professionalità (Paola Tarantelli ne ha in abbondanza) è la metafora di una deriva della didattica, che si sente costretta a “ricordare” piuttosto che stimolata a interpretare e capire un fatto storico. Dopotutto, chi insegna sa meglio di chiunque altro che la scelta di un testo è un’attività complessa, che richiede capacità di giudizio ed esperienza: attività che non possono cedersi né al mercato né al mercante.

Da storica ritengo che il problema non sia il fatto storico in sé, ma il tema della memoria e di come essa si racconta ai più piccoli. Un libro, un filmato, un cartone animato sono strumenti ai quali non è possibile delegare il compito fondamentale dell’insegnamento che è, prima di tutto, trasmissione di strumenti per interpretare. E questo lo sa bene il bravo insegnante, che è consapevole che nulla può sostituire il suo ruolo di interprete e mediatore. In base alla fascia d’età dei suoi alunni egli saprà bene quale linguaggio utilizzare e che schema interpretativo proporre di un libro, come di qualunque altro prodotto narrativo.

Ricordo, a tale proposito, un’esperienza maturata lo scorso anno in occasione dei nostri laboratori didattici per le scuole. Un’insegnante di prima elementare ci chiese di organizzare un laboratorio sulla deportazione della comunità ebraica romana. Non nascondo il mio stupore e il mio timore. Come si può raccontare ai più piccoli il dramma delle camere a gas, senza traumatizzare loro e, contemporaneamente, mantenendo il rispetto per la vicenda e le persone e, insieme, senza suscitare in loro nuovi e differenti pregiudizi? Ho trascorso giorni a cancellare dal mio linguaggio termini come morte, sangue, dolore, separazione, paura. Ho letto libri e visto cartoni animati. Ho cercato nei prodotti narrativi un’alternativa alla mia lezione, senza nascondere che avrei mille volte preferito affidare tutta la spiegazione a un libro o a un cartone animato. Il mio comportamento non era differente da quello dell’insegnante che irrompe in libreria la sera prima del Giorno della memoria.

Sono uscita stremata e demoralizzata da questa ricerca. Nessun libro né filmato, raccontava la Shoah come volevo raccontarla io. E quando ho preso coscienza di questo, mi sono resa conto che quello che cercavo era la chiave interpretativa della Shoah e che, una volta compresa, raccontarla non sarebbe stato difficile, perché un qualunque testo o filmato sarebbero diventati solo uno strumento per facilitare la comprensione del mio racconto. Ho scelto così un libro, l’ho fatto mio e l’ho usato come volevo io.

Ne è nato un laboratorio animato da polpi buoni e calamari cattivi, giganti egoisti che chiudono i cancelli del giardino ai bambini che vogliono giocare, fino a sassolini dorati lasciati nelle strade per ricordarsi dove tornare dopo i brutti momenti. La passeggiata è diventata un gioco per ricostruire il mondo e la quotidianità di una bambina costretta a lasciare la sua casa, la sua scuola, i suoi amici, la sua sinagoga, il suo cortile per sfuggire alle prepotenze di un calamaro arrogante. Ho raccontato loro una storia utilizzando un’altra storia. Ne è venuto fuori questo.

[SF]

 

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